sabato 19 aprile 2014

La penultima verità di Matrix


Benvenuti nel deserto del reale

La penultima verità di Matrix

by Gigi Roggero

“La tecnologia non è né buona né cattiva. E non è neppure neutrale”. Forse è proprio la “legge di Kranzberg” a indicare il difficile crinale lungo cui la trilogia di Matrix si avventura. Non si può certo dire che i fratelli Wachowski, i registi della saga, siano degli autori completamente ignari del dibattito sui complessi temi da loro sollevati, e quindi semplicemente fortunati nell’aver azzeccato un film di successo. Lo dimostra il rapporto – pur tormentato e poi definitivamente deterioratosi – con Baudrillard. Altrettanto imprudente, come ammonisce Slavoj Zizek, sarebbe l’attribuire ai fratelli della “grande matrice” una visione del mondo filosoficamente definita e compiuta. 



Benvenuti nel deserto del reale - La penultima verità di Matrix - Insomma, Matrix non è né la concretizzazione di una raffinata scuola di pensiero, né l’ultima e irrilevante sciocchezza cinematografica, come seccamente sembra liquidarlo Carlo Sini. Il suo punto di interesse sta proprio nell’essere – come sostiene Formenti – “un prodotto dell’industria culturale americana”, capace di raccogliere frammenti di analisi, dibattito, immaginari che rimbalzano dagli Stati Uniti all’Europa, fortemente situato in una fase storica segnata dalla definitiva affermazione delle tecnologie informatiche e dall’ascesa e crollo della New Economy. La trilogia raccoglie timori e speranze, ansie e potenzialità dell’era della digitalizzazione delle forme di vita: la molteplicità dei temi allusi sono frullati e semplificati in un film in grado di raggiungere centinaia di milioni di persone in tutto il globo. In un feedback caratteristico dell’industria culturale, dunque, la trilogia è tanto prodotto culturale, ossia termometro che registra sulla scala di massa la temperatura di uno scorcio storico, quanto elemento che influenza tendenze e stili consumo.
Arroccati nei propri fortilizi, alcuni intellettuali potranno denunciare – non senza ragioni, evidentemente – le banalità del tempo (post)moderno, rifiutando il confronto con l’industria culturale. E tuttavia, si precluderanno la possibilità di confrontarsi con la materialità del mondo e delle forme di vita che continuamente lo producono e lo riproducono. E se queste passano anche per vulgate che possono far sorridere o irritare, tant’è: “benvenuti nel deserto del reale”, direbbe loro Morpheus.
Allo stesso modo, con intenti scioccamente spregiativi, le nuove generazioni del movimento globale sono state talvolta definite figlie di Matrix. E se invece film e romanzi liquidati con sufficienza risultassero in certe occasioni diagnosticamente e analiticamente più utili che voluminosi tomi su cui già si è espressa la critica roditrice dei topi? Forse non è semplice fantascienza la rivolta dei ceti medi immaginata dall’impietoso occhio dello scienziato sociale James Ballard, una rivoluzione contro una vita ridotta all’alienante obbligo al consumo e al turismo. Chelsea Marina, il quartiere della nuova lumpenborghesia in cui si svolge il romanzo, non è poi così distante dal reale. I confini tra realtà e irrealtà, tra autenticità e finzione, si fanno labili e sfumati: oggi possiamo definire Philip K. Dick un profetico fantasociologo, più che un autore di science-fiction, genere letterario da sempre disprezzato dalla “cultura alta”. E potremmo continuare con il vibrante cyberpunk di Bruce Sterling, capace di navigare con lucide anticipazioni tra l’estasi e la catastrofe, i drammi e le possibilità dell’età contemporanea. O William Gibson, che già all’inizio degli anni ’90 definiva Singapore una “Disneyland con pena di morte”, restituendo con vivida immagine quanto solo alcuni anni più tardi la sociologia urbana riuscirà a cogliere nelle trasformazioni della città. O ancora, sui temi di che cosa è reale, si e ci interrogano fecondamente Existenz di Cronenberg, il “vecchio” Blade Runner di Ridley Scott o Mulholland Drive di Lynch. E lo fanno indubbiamente con maggiore complessità e meno concessioni hollywoodiane di Matrix.
Tutto questo ci parla di un’eccedenza dei saperi rispetto ai luoghi e ai perimetri classici in cui sono stati confinati. Non solo di una transdisciplinarità della produzione di conoscenza, ma una sua diffusione capillare al di fuori dei canali a essa tradizionalmente deputati: le scuole, le università, gli istituti scientifici, i centri accademici. Si tratta di un processo ambivalente: può assumere i connotati di una cooperazione sociale ricca, così come parlare i linguaggi della banalizzazione; la diffusione dei saperi deve fare i conti con le vulgate della standardizzazione. L’espressione di singolarità con la merce. O meglio, i due aspetti convivono e si intrecciano, in un’ibridazione dalle molteplici possibilità.
In questo contesto, Matrix è interessante proprio laddove riesce a galleggiare sul filo dell’ambivalenza. Non tanto, quindi, nella famosa scena del primo episodio in cui Neo, il protagonista, deve compiere la scelta della vita: pillola blu (ritorno alla sua esistenza ignara e controllata) o pillola rossa (passare con i ribelli e combattere la grande matrice). Si tratta del modello classico della militanza, tramandato dai religiosi opuscoli della Terza Internazionale: la rinuncia etica di oggi sarà compensata dalla conquista del sole dell’avvenire. Il divino tribunale della Storia premierà chi per essa si è sacrificato, chi ha combattuto per il ritorno al reale. La salvezza, però, non è alla portata di tutti, ma solo degli eletti e dei predestinati. Non è dall’interno di Matrix, dunque, che si possono formare i soggetti che lo distruggeranno: lì c’è unicamente accettazione e incoscienza. La redenzione arriverà da un’astratta entità metafisica esterna: dio o destino. E quando, nel Reloaded, prende forma Zion (a testimoniare il lessico religioso del film), essa appare al contempo luogo di resistenza, prefigurazione della società a venire (in cui le macchine non controllano gli uomini, ma sono al loro servizio, forse in una riedizione aggiornata della nota strofa dell’internazionale “e la macchina sia alleata, non nemica ai lavorator”), oppure ultima comunità della vita reale braccata dalla colonizzazione macchinica. E tuttavia, Zion resta patria dei predestinati, terra della trascendenza, incorruttibile in quanto formatasi interamente fuori dal mondo dominato dalla matrice.
Significativo, però, non è ciò che vive fuori, ma dentro Matrix. Struttura di comando e inganno, la grande matrice è anche fonte di ambigui piaceri, non rinviati a un imprecisato futuro, ma consumati hic et nunc. “Io so che questa bistecca non è vera, ma accidenti se è buona!”, dice all’incirca l’immancabile traditore del primo episodio, a fronte della vita austera e di rinuncia dei rivoluzionari guidati da Morpheus. E poi, il futuro di libertà non è meno virtuale della bistecca. Insomma, il sistema della corruzione è anche l’unica possibilità per una trasformazione: o per di qua, o non resta che aspettare l’oscura decisione di un qualche Dio.
Del resto, in una scena del primo episodio, i fratelli Wachowski mostrano cosa alimenta Matrix: sono i cervelli degli umani residui a muovere il sistema. Come a dire: la virtualizzazione estrema non è riuscita a liberarsi del lavoro vivo. È la radice materiale del dominio virtuale. Ancora di più: si nutre della sua intelligenza singolare e collettiva, la co-forma e de-forma, la usa e la piega ai suoi scopi. Ecco perché, come sostiene Slavoj Zizek nella sua Difesa dell’intolleranza, le idee dominanti non sono – solo – le idee dei dominanti. L’ineliminabile anomalia sistemica di cui (nella seconda puntata) parla l’architetto della megamacchina, costituisce l’ambivalenza che vive simbioticamente dentro Matrix, la tensione immanente a un rapporto di potere asimmetrico.
Nel deserto del reale o – per dirla con Zigmunt Bauman – nella liquefazione della modernità, è forte la tentazione di ridurre tutto a una scelta secca: ritorno al reale e alla solidità del moderno, fatta di identità stabili e ambigue sicurezze, o abbandono nelle allettanti ed effimere opportunità offerte da Matrix. Pillola rossa o pillola blu. Ma il ritorno indietro è da un lato impraticabile (la realtà conosciuta, ci dicono e fanno vedere i registi, è stata irrimediabilmente distrutta); dall’altro non è detto che sia poi così desiderabile: era davvero meglio il dominio (anche) sui corpi rispetto al “puro” dominio (prevalentemente) sulle menti? Persino il lontano paese dei ribelli, Zion, non è immune da un simile interrogativo.
Un incontaminato altrove non è possibile perché la megamatrice non è semplicemente potere concentrato in un luogo: noi viviamo in Matrix, Matrix vive dentro di noi. Per annientarlo non basta trovare le chiavi della stanza in cui il grande cervello artificiale irraggia il suo comando. Di questo i registi del film ne sembrano consapevoli: dopo il secondo episodio si sono però cacciati in un bel guaio, dice Zizek, in quanto nella terza parte avrebbero dovuto “produrre niente meno che la risposta appropriata ai dilemmi della politica rivoluzionaria oggi”. Davvero troppo, e non solo per i Wachowski. Questi, per ogni buon conto, hanno preferito salvaguardare il loro ruolo di registi di una trilogia di successo. Hanno evitato il finale più scontato, ossia il grande scontro tra Zion e il sistema delle macchine, una postmoderna Armageddon in salsa digitale. Si sono così affidati a un finale che non finisce. E tuttavia, non hanno osato smentire il grande architetto: viste come sono andate le cose, non aveva forse ragione lui nel sostenere che anche l’anomalia era progettata per essere tale, quindi funzionale al sistema? Così, l’unico vero elemento di disturbo al funzionamento della grande macchina dell’alienazione finisce per essere l’agente Smith, ossia il virus, vittima dell’alleanza tra Neo e Matrix – in una tecnoversione del patto Ribbentrop-Molotov, o in “uno spot dei software anti-virus della Norton”!
Ma, forse, tertium datur: il sistema della grande matrice, specchio del capitalismo globale, è tutt’altro che compatto, omogeneo e linearmente progressivo. È invece attraversato da crepe e squilibri contraddittori. Neo fa continuamente affidamento alla “profezia dell’oracolo”: termini che parrebbero accoppiarsi bene, sono in realtà contraddittori. Ed è in questa contraddizione che si scontrano e divaricano radicalmente i presupposti dell’azione. L’oracolo è colui che pre-vede ciò che avverrà: la prospettiva fa perno sul futuro, ineluttabilmente scritto nelle necessità storiche o metastoriche, o in imperscrutabili leggi trascendenti. Il profeta, invece, vede quello che qui gli altri non vedono: il suo grido incita all’azione nel presente, indica le possibilità celate nell’invisibile, mira a tradurre la potenza in atto. Come sottolinea Mario Tronti, il profeta non prefigura l’isola felice da raggiungere: non c’è nessuna salvezza, o una qualche patria-Zion, ad attenderci nel nostro destino. Allora, la fuoriuscita dal dominio della grande matrice non può che essere collocata su un piano di immanenza. Non può che essere dentro e contro Matrix. E se il prodotto dei fratelli Wachowski oscilla continuamente tra il rifiuto e la fascinazione del virtuale, probabilmente è proprio nella capacità di sottrarsi a questa speculare dicotomia che vivono le linee di fuga tanto all’alienante accettazione, quanto alla fede in un mitico fuori. Questa potrebbe essere – per dirla con un romanzo di Dick – la penultima verità che il prodotto-Matrix ci consegna.

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